Intervista a Enrico Terrinoni traduttore di Joyce

Intervista a Enrico Terrinoni traduttore di Joyce

E’ grazie ai traduttori che abbiamo la possibilità di leggere i romanzi scritti in una lingua diversa dalla nostra.

terrinoni

 

In questa intervista (Alessandro Lolli, 2014) si parla di questo difficile mestiere con Enrico Terrinoni, docente e traduttore italiano.

La sua traduzione dell’Ulisse di Joyce, edita nel 2012 da Newton Compton, si è rivelata un successo di critica e commerciale.

 
Ecco l’intervista.

Abbiamo notato che tutte le interviste ai traduttori si inabissano sull’impossibilità della traduzione, recitando il noto adagio sul tradurre che equivale a tradire. Caviamoci subito il dente, cosa ci dici sulla questione?

È una non questione perché la possibilità si declina in termini di fattualità: la traduzione si fa da sempre. Oltre a farsi da sempre, c’è il fatto che la comunicazione si basa sulla traduzione, non devo citare Jakobson per spiegare che la traduzione non è solo interlinguistica ma anche intralinguistica: io e te parliamo la stessa lingua ma ci traduciamo.

Traduciamo il pensiero in parole, ma anche le parole in azione, la traduzione è ovunque. John Florio, studioso rinascimentale amico di Giordano Bruno, scrisse «il mio amico il Nolano mi ha insegnato che dalla traduzione nascono tutte le scienze». Lui con scienza intende il sapere e vuole dire che non c’è sapere senza traduzione. Tradurre vuol dire tramandare e il tradire è insito nel tramandare: io tramando qualcosa ed è inevitabile che la tradisca, fa parte della comunicazione stessa. La comunicazione si muove sulla menzogna, è il linguaggio stesso che permette la bugia.

Nel 2012 è uscita la tua traduzione dell’Ulisse di Joyce per i Mammut della Newton Compton. Ci parli della genesi di quest’edizione? 

È nata in modo fortuito, ho ricevuto una mail da un editore che conoscevo per essere spiccatamente commerciale che mi chiedeva se volessi fare l’Ulisse. Io mi sono stupito, pensavo a uno scherzo. Solo in seguito mi hanno spiegato che loro cercavano uno studioso di Joyce che avesse pubblicato in merito e che fosse anche un traduttore di autori irlandesi. Io soddisfacevo entrambi i requisiti.

Ho studiato Joyce tutta la vita, da un lato sono stato allievo degli allievi di Giorgio Melchiori, grande deus ex machina dietro la precedente traduzione di De Angelis, dall’altro, in Irlanda, ho studiato con Declan Kiberd che è l’editor dell’Ulisse per la Penguin. Venivo da questi due importanti filoni di studi Joyciani. E l’idea di pubblicare l’Ulisse, un libro allora molto poco letto da noi, con un editore che applicasse prezzi di copertina molto bassi e raggiungesse vaste platee di lettori, era quello che avrei cercato, se avessi scelto io di tradurre il gran libro di Joyce. Ma mi è stato proposto, e a queste proposte non si dice di no.

La lingua di Joyce costituisce una sfida per ogni lettore ma anche per ogni traduttore. Quali sono state le difficoltà maggiori che hai trovato nell’affrontare un’opera come l’Ulisse? Come le hai superate?

Le difficoltà maggiori sono gli scarti di stile. Quando Joyce, come dicevo prima, scrive contro una tradizione letteraria. Un capitolo in particolare, il quattordicesimo, è una parodia di tutti gli stili della letteratura inglese. A partire dalla scrittura anglosassone, passando per l’omiletica medievale, per arrivare fino al gotico e al romanzo realista. Joyce in ogni pagina fa la parodia di uno scrittore.

Come lo rendi in italiano? Se al posto di Dickens faccio la parodia di Manzoni, perdo la pregnanza politica del discorso. In Spagna è stato fatto, hanno preso in giro la letteratura spagnola. Ma è politicamente sbagliato perché non solo Joyce non prendeva in giro gli spagnoli, ma non prendeva in giro neanche gli irlandesi, semmai gli inglesi.

Ecco un altro topos delle interviste ai traduttori. Cosa consiglieresti a un aspirante traduttore di narrativa?

Come primo consiglio mi verrebbe da dire: «non lo fare». I traduttori sono trattati molto male dall’industria editoriale, esclusi quelli che hanno un nome.

Parli della situazione italiana?

Sì. Quando mi chiesero di fare l’Ulisse, mi trovavo per puro caso in Indiana, alla Lilly Library, e il curatore di questa biblioteca era Breon Mitchell, un traduttore americano di Kafka. Parlando mi ha raccontato che prendeva 100 dollari a cartella. Io all’epoca prendevo un quarto di quella cifra ed era comunque tantissimo rispetto ai miei giovani colleghi.

Come si fa a non finire come i tuoi giovani colleghi?

Il consiglio è di non farsi mettere i piedi in testa e, contemporaneamente, ragionare in senso solidaristico e di classe, non accettare contratti a ribasso. Non dare per scontato che l’editore ne sappia più di te. Ricordarsi che sono i traduttori  a dare il lavoro agli editori e non l’opposto.

Questo non vuol dire che bisogna farsi la guerra, ma essere consapevoli che si lavora a certe condizioni e non si accetta di meno di quanto si pensi di meritare. Purtroppo vedo che i traduttori giovani e meno quotati sono trattati molto, molto peggio di quelli come me, e non è affatto scontato che siano dei traduttori peggiori, anzi.

Parlando di inglese, forse gli  aspiranti traduttori di oggi trovano più concorrenza che in passato per la maggior diffusione scolastica della lingua? In che modo un giovane può far valere la sua proposta?

Bisogna diventare nel proprio piccolo esperti di quello che si fa. Fare proposte agli editori che siano proposte oculate. Essere in grado di scrivere una proposta editoriale credibile significa mostrare all’editore che sono io l’esperto, sono io che ti sto portando un contributo, un contributo che ti farà fare dei soldi. Non vado a elemosinare il lavoro ma sono io che do lavoro.

Parte di questa oculatezza sta anche nello scegliere l’editore giusto: non posso fare una proposta di chick lit ad Adelphi, no? Quindi bisogna fare una ricerca sia sull’autore che si vuole tradurre, sia sul mondo editoriale. A volte i traduttori giovani mandano curriculum a tappeto e non sanno che questo tipo di candidature spontanee vengono scartate immediatamente, oppure incorrono in qualcuno che se ne approfitta e gli offre 5 o 6 euro a cartella. Sapere con chi si sta parlando e fare proposte puntuali è fondamentale.

Tu hai cominciato così?

Esattamente. Ero ancora in Irlanda quando ho visto che in Italia era nato una nuova casa editrice, che purtroppo ha avuto vita breve, Giano Editore. Avevano appena pubblicato un libro di Flann O’Brien. Io in quel periodo studiavo uno scrittore coevo di O’Brien, un suo caro amico, Brendan Behan. Quando quest’ultimo morì, Flann O’Brien scrisse un necrologio: «Questa sera Dublino mi sembra più silenziosa del solito, è morto il proprietario del cuore più grande che abbia battuto in Irlanda negli ultimi quaranta anni».

Ho ragionato: se questo editore ha fatto Flann O’Brien potrebbe fare anche Brendan Behan. Avevo ragione: gli ho scritto, si è interessato e abbiamo pubblicato.

Pensi sia un’altra generazione? 

Un’altra generazione, sì, ma vicina, parlo del 2003, dieci anni fa.

C’è la crisi e tutto il resto ma la traduzione in Italia va ancora, basta guardare l’affluenza alle Giornate della Traduzione Letteraria di Urbino. Solo che c’è un mercato al ribasso. E gli stessi editori non si rendono conto che sottopagare non conviene: se mi dai cinque euro a cartella, ti aspetti davvero che ti faccia un grande lavoro?

Confermi quindi il problema della scarsa qualità delle traduzioni sottopagate.

Certo, recensendo i libri per il Manifesto me ne rendo conto giornalmente. Un grande editore sceglie un grande autore ma lo affida a un traduttore sottopagato e alle prime armi che fa delle sconcezze. Ma non è colpa del traduttore, che è sottopagato e sa che comunque ci sarà una revisione, è colpa dell’editore che sceglie di non investire.

Tratto da  “Intervista a Enrico Terrinoni, traduttore di Joyce ”
di Alessandro Lolli (2014)

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