Intervista a Giorgio Faletti

«Sono fortunato. E coraggioso»

falettiGiorgio Faletti muore a Torino  il 4 luglio 2014 a 63 anni. Laureato in legge, lo ricordiamo come figura  di grande  versatilità artistica: nella sua carriera è stato infatti cabarettista, attore, cantante, scrittore, compositore di musiche, paroliere, sceneggiatore, persino pittore.

Questa intervista è comparsa su VANITY FAIR, nel  numero del 27 maggio 2009.

Ci attardiamo un po’ sulla cucina il cui segreto è, secondo Faletti, un uso «acconcio» delle erbe aromatiche e, in questo, assomiglia molto alla scrittura, solo che lì si usano odori e spezie diversi: «I sentimenti umani. Ogni personaggio che inventi ha tanto più spessore quante più erbe gli aggiungi. È una cosa che ho imparato facendo il cabaret: non basta che chi porti in scena sia simpatico, gli devi dare anche un lavoro, un tic, una sorella. Solo così una macchietta diventa una maschera».

Parliamo di Io sono Dio, partendo dai ringraziamenti. A pagina 523 lei dice: «Chi ha letto questo romanzo ha capito che non c’è nulla di autobiografico nel titolo. A chi non lo ha letto e pensa che ci sia, lascio intatta questa presunzione che mi onora».
«Quando ho iniziato a dire in giro il titolo, che è una battuta di Robert De Niro in Men Of Honor, qualcuno ha commentato: “Ah, però, per nulla presuntuoso”. Tenendo presente che quando ho intitolato il mio primo libro Io uccido nessun poliziotto è venuto a cercarmi, non capisco perché questo abbia, invece, suscitato sospetti di onnipotenza. Ma, alla fine, queste reazioni sono anche un ottimo metro di giudizio per capire con chi sto parlando».

Qualcuno la fa più presuntuoso di quello che è?
«Su di me circolano voci di ogni tipo, la più insistente che non sarei io a scrivere i miei libri. Approfitto per proporre una scommessa: se qualcuno ha voglia di mettere lì del denaro, lo portiamo da un notaio e io lo autorizzo a stare con me mentre scrivo. Spero che qualcuno accetti: è il sistema più semplice per guadagnarsi dei soldi».

Le crediamo sulla parola e prendiamo per buono che l’autore sia lei. Ci spieghi, allora, che cosa aveva in mente quando ha pensato questo libro.
«Era da un po’ che avevo voglia di scrivere della guerra, un’attività che mi ha sempre affascinato perché è la massima espressione ludica dell’uomo. Tra tante guerre ho scelto quella del Vietnam, perché è la guerra della mia generazione e perché è stata una guerra tra poveri: contadini contro disperati di vent’anni. E da lì ho fatto un passo in più: che cosa succede quando quello con cui sei in guerra non è più fuori, ma è dentro casa? E, ancora, che cos’è la vendetta?».

Che cos’è la vendetta?
«Qualcosa che non sempre, ma qualche volta, coincide con la giustizia. Anche la tragedia dell’11 settembre, a volerla guardare dalle due parti, da un lato è vendetta, dall’altro è giustizia. I partigiani da una parte erano eroi, dall’altra terroristi. C’è sempre una duplice visione, e il confine tra i due estremi può essere sottile».

Lei da che parte sta?
«Dei buoni, sempre. Quando devo far morire un personaggio buono ci metto delle ore, quando devo accoppare un cattivo digito sulla tastiera velocissimo».

Questa è l’ennesima storia americana: ne scriverà mai una italiana?
«Perché Dan Brown può ambientare i suoi libri in Europa e io, i miei, non posso ambientarli là? L’America mi ha sempre affascinato perché là è tutto sovradimensionato, ma in questa enormità di spazi c’è una grandissima omologazione. L’italiano medio non esiste, l’americano medio sì. Il sabato sera al bar, il copertone dell’auto a fare da altalena, un cumulo di rifiuti dietro casa».

Quando l’ha scoperta, l’America?
«Dopo i cinquant’anni, e sono contento così perché avevo l’attrezzatura mentale per capirla. L’ho capita e l’ho amata. Tanto che adesso ho un piccolo appartamento a Manhattan sulla Ventitreesima con un fantastico doorman (portiere, ndr) che si chiama Zef, e che ho messo anche nel libro».

Lei è l’uomo multitasking per eccellenza. C’è ancora qualche settore in cui ha voglia di cimentarsi?
«Convivo con questo oscuro personaggio che si chiama Giorgio Faletti e non so mai che cosa aspettarmi da lui. Per esempio, adesso sono incuriosito dall’arte figurativa, ma siccome disegno come un bambino delle elementari, penso che non mi cimenterò».

Fa solo cose in cui è sicuro di riuscire?
«No, faccio solo le cose di cui sento di avere voglia, tanta voglia. L’esempio più eclatante non è tanto lo scrivere – sono sempre stato bravo in questo: i miei temi facevano il giro della scuola – ma comporre musica. Non sapevo se ne sarei stato capace, ma l’ho fatto, soprattutto perché mi faceva stare bene. Anche scrivere i libri mi fa stare bene; ho iniziato in un momento di impasse con lo spettacolo: la Tv non mi cercava e io, del resto, sentivo di non avere molto altro da dire. Avevo un po’ di marasma, dentro. E il marasma è diventato il titolo di un libro, Io uccido, uscito il giorno in cui ho avuto l’ictus».

È cambiato qualcosa dopo quell’incidente?
«Mah, forse il fatto che non rimando più le cose. Sono un signore di quasi sessant’anni, con molto più passato che futuro, e con questo dato di fatto devo fare i conti. Anche se, essendo – come tutti gli esseri umani – animato da sostanziale ottimismo, istintivamente tendo a fare progetti a lungo periodo. Solo dopo mi fermo e mi dico: e se…? Ma va bene anche così, perché sono soddisfatto di quello che ho e che ho fatto».

Si considera un uomo fortunato?
«Sì, ma non per quello che ho. Soltanto per il fatto di essere nato con un’inclinazione per alcune cose. Mi arrogo il merito di avere avuto il coraggio di seguirle».

Perché parla di coraggio?
«Guardi: io sono nato qui, una città di provincia, e a un certo punto ho preso baracca e burattini e sono andato a Milano, a fare il cabarettista. Un po’ di coraggio ci vuole».

Lo rifarebbe?
«Subito. Eravamo io, Boldi, Teocoli, Abatantuono, Mauro Di Francesco, Paolo Rossi, Aldo Giovanni e Giacomo, Claudio Bisio, e ci sentivamo come i pionieri, uomini di frontiera. Soldi pochi e tante risate, poi ognuno ha preso la sua strada. È stato bello. Ripensandoci, ogni tanto mi viene la sindrome Luci a San Siro, sa quando dice: “Prenditi pure quel po’ di soldi quel po’ di celebrità ma dammi indietro la mia seicento, i miei vent’anni e una ragazza che tu sai”. Minuscoli momenti di malinconia, leniti dalle cose nuove che mi vengono in mente. Adesso, per esempio, sto lavorando a una piccola opera musicale».

Un’operina.
«Un’operazione».

E se Io sono Dio non vende x milioni di copie come gli altri?
«Boh. Che cos’è un successo? Se prima ho venduto 4 milioni di copie e questo ne vende 2 milioni, è andato bene o è andato male?».

Può sempre contare sull’effetto logo: un libro di Faletti si compra come una borsa di Gucci. Basta il monogramma.
«Non credo mi si compri a scatola chiusa. O comunque, se la apri e quello che c’è dentro non ti piace, non ci torni più nel mio negozio. Ma, come ogni artista, sono allenato anche agli eventuali insuccessi. E, come ogni artista, se in una sala ci sono mille persone e tutti ridono e una sola mi guarda seria, io non sono contento per quelle 999 che sto facendo divertire, ma infastidito perché c’è uno che non sono riuscito a conquistare».

VANITY FAIR,  27 maggio 2009.

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