Intervista a Philip Roth

Il dolore di essere Philip Roth

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Intervista  tratta dalle dieci ore di conversazione registrate nel 2010 durante la lavorazione di «Philip Roth rivelato» uscita nel Corriere della Sera alla vigilia dell’ottantesimo compleanno dello scrittore americano.

 

Il pudore?
«Il pudore non s’addice allo scrittore. Bisogna liberarsene. Non significa essere per forza osceni o sporcare di feci le pagine, non è questo il punto. Ma vergognarsi non funziona. Non sarei riuscito a scrivere Il teatro di Sabbath se avessi provato pudore».

E la felicità?
«Ho cercato di scrivere sulla felicità nelle pagine iniziali di Pastorale americana, in cui ho descritto una famiglia felice che aveva lavorato sodo e vissuto secondo le regole. E poi ho raccontato la rovina di quella felicità. Non so se ho mai scritto di gente felice sul serio. È il tipo di cosa per cui consiglio di rivolgersi altrove».

Ci sono momenti in cui immagini la felicità nella «Controvita».
«Oh, certo».

E poi la distruggi.
«Appunto».

E la sofferenza? È proprio necessario soffrire per essere un bravo scrittore?
«Non hai scelta. Non hai bisogno di andare a cercare la sofferenza se vuoi essere uno scrittore. Puoi star tranquillo che sarà lei a trovarti. Scrivere è senza dubbio un mestiere pericoloso. O per ragioni intrinseche o per il temperamento di chi lo sceglie. Che cosa abbia portato tanti scrittori di qualità a suicidarsi, come Levi, Hemingway e Mishima, non lo so. So che non ho intenzione di aggiungere il mio nome alla lista».

Tu perché hai scelto questo mestiere?
«Perché scrivo? Non lo so. So che i miei momenti peggiori sono quando non scrivo. Allora tendo a essere infelice, depresso, ansioso, e così via. Ne ho disperatamente bisogno».

Mi racconti della tua famiglia? Tuo fratello, per esempio.
«Mio fratello Sandy aveva cinque anni più di me. Voleva fare il pittore ed è diventato un disegnatore pubblicitario. Ricordo che il sabato frequentava una scuola d’arte nella Cinquantasettesima strada a New York dove prima di lui aveva studiato mio zio Mickey, il comunista della famiglia. Sandy era iscritto a disegno dal vero. Aveva quattordici anni e io… nove. E non vedevo l’ora che mi raccontasse tutto! Per me era sbalorditivo avere un fratello maggiore che andava in una grande città esotica, si sedeva davanti a una donna nuda, la guardava e la disegnava!».

E tua madre che tipo era?
«Al contrario di mio padre aveva fatto il liceo. Che tipo era? Non beveva, non fumava. Aveva una grande energia. Mio padre e mia madre erano il tipo di persone che quando cominciano un lavoro, non importa quanto difficile, lo finiscono».

Era molto protettiva?
«Con Sandy forse, ma non con me. Come si faceva a essere iperprotettivi con me? Ero sempre in giro, andavo ai giardini a cinque minuti da casa, poi a scuola a giocare tutto il pomeriggio. A sette anni non andavo certo al bordello».

E tuo padre?
«Mio padre invece divenne esageratamente protettivo quando andai al college. Non riusciva ad accettare la mia indipendenza. E così cominciammo a scontrarci. Ricordo di aver pensato che se non fossi andato via, lo avrei ammazzato».

Com’era il quartiere in cui sei cresciuto a Newark?
«Non era un quartiere di immigrati, ma di figli di immigrati. Non c’era nessuna nostalgia del Paese d’origine, non se ne parlava mai. Non ho mai sentito una parola a riguardo nella mia famiglia. Forse dai miei nonni:ma loro parlavano solo yiddish e io solo inglese. Eravamo troppo occupati a immergerci nella vita americana».

Hai qualche ricordo della guerra?
«Ricordo mio padre ascoltare Hitler alla radio. E ricordo che stavo giocando con degli amichetti davanti a casa, quando uno dei miei genitori è venuto alla finestra e ha detto: “Venite su”. Poi ci hanno spiegato che l’America era entrata in guerra».

Hai cominciato a scrivere sotto le armi, vero? A quanti anni?
«Ventidue. Lavoravo in un ufficio con una macchina per scrivere. E dopo cena facevo un giro intorno alla base con altri ragazzi, poi tornavo in ufficio — avevo la chiave — e mi mettevo al lavoro. È lì che ho scritto alcuni dei racconti di Goodbye, Columbus».

Quelli che hanno scatenato un putiferio quando sono usciti nel 1959?
«In effetti quando Difensore della fede uscì sul “New Yorker” successe il finimondo. Ci furono dozzine di telefonate e lettere di ebrei che annullavano l’abbonamento alla rivista. E di colpo cominciarono a darmi dell’antisemita: questa cosa che ho detestato per tutta la mia vita! Ma invece di scoraggiarmi quest’incidente mi ha motivato. Non a scrivere apposta cose irritanti, ma a continuare il lavoro che avevo cominciato».

Che cosa c’era di così offensivo in quei racconti?
«In uno si parlava di un ebreo di mezza età che tradiva la moglie. E in un altro una ragazza ebrea comprava un diaframma. Ma sono pronto a testimoniare che c’erano ragazze ebree che compravano diaframmi, e mariti ebrei che commettevano adulterio (ride). Sa cosa dicevano a Isaac Singer? Gli dicevano: “Mister Singer, deve proprio scrivere di puttane ebree e magnaccia ebrei?”. E lui rispondeva: “E di cosa dovrei scrivere? Di puttane portoghesi? Di magnaccia portoghesi?”».

Da dove è uscita cinque anni dopo l’esilarante oscenità del «Lamento di Portnoy»?
«Quando sono tornato a New York nel 1963 ho cominciato a frequentare dei tipi, tutti ebrei, che mi divertivo a fare ridere. Andavamo a cena e dopo mi esibivo. E morivamo dalle risate, esattamente come quando ero ragazzino e gli amici di mio fratello venivano a casa e si mettevano a raccontare storielle esilaranti. Portnoy in un certo senso è una performance».

Hanno riso anche i tuoi genitori?
«Senti. Un giorno li ho invitati a colazione e ho spiegato che stavo per pubblicare un libro che avrebbe fatto scalpore, e che se li avessero chiamati dei giornalisti, potevano riattaccare. Sembra che nel taxi mia madre sia scoppiata in lacrime, dicendo: “Quel ragazzo ha manie di grandezza. Da bambino non era così. Ora ha manie di grandezza…”» (e scoppia di nuovo a ridere).

E tuo padre?
«Vuoi sapere come la prese mio padre? Ho mandato lui e mia madre in crociera per tenerli lontani dai fuochi d’artificio di Portnoy. E al ritorno ho scoperto che aveva portato con sé una dozzina di copie, e quando faceva amicizia con qualcuno, diceva: vuole una copia autografata del libro di mio figlio? Correva in cabina, prendeva un libro e ci scriveva: “Dal padre di Philip Roth, Herman”. Era un venditore…».

All’epoca eri ancora sposato, vero?
«No… ho lasciato mia moglie nel 1963. Sono stato sposato per due anni e mezzo».

Allora eri in attesa di divorzio.
«Non posso parlare di questo».

Va bene. Ma se non parliamo della tua prima moglie…
«… Non parliamo nemmeno della seconda. Lasciamole fuori tutt’e dodici!… È stato un matrimonio terribile, cupo, brutale. Non avevo nemmeno trent’anni. E quando ho lasciato questa persona mi sono ritrovato a pezzi. Deragliato. Per anni non sono nemmeno più riuscito a scrivere».

Cosa te lo impediva?
«La rabbia. Sono uno che non si compra niente, i miei amici mi prendono sempre in giro. Ma avevo bisogno di soldi per poter scrivere. E tra gli alimenti a mia moglie e lo psichiatra quattro volte alla settimana ero sempre senza un soldo. Di qui la rabbia. E l’impossibilità di scrivere».

Ci vai ancora, magari saltuariamente, dallo psicoanalista?
«Oh no, ho cent’anni! Sopra i 99 non ti prendono più».

In ogni caso a quel punto è arrivato il successo…
«Sì, e insieme al successo la fama letteraria, la fama sessuale, e la fama di essere un pazzo. Tutto quello che la gente vedeva in Portnoy, da quel momento in poi lo ha visto in me. Ho dovuto andarmene da New York. Al ristorante mi apostrofavano: “Hei, Portnoy, stai mangiando fegato?”. Un giorno camminavo in montagna con la mia ragazza e mi lamentavo di questi assalti, quando lei mi ha detto: “Smettila adesso, non c’è nessuno qui. Non vedi che siamo tra le montagne?”. In quel momento è passata una macchina, una persona ha abbassato il finestrino e ha gridato: “Lasciala stare, Portnoy!”. Indimenticabile».

A New York, per strada, la gente ti riconosce ancora.
«Ma no, ora vedono questo vecchio per strada e lo aiutano. Ora la fama è diventata una cosa buona. Mi aiutano ad attraversare la strada».

Nella «Controvita» c’è un personaggio che dice a Zuckerman, che è scrittore: «Tu non ti rendi conto che quello che scrivi ha delle conseguenze sulle persone». Lo hanno detto anche a te?
«Forse lo hanno pensato, ma non ho mai dovuto affrontare direttamente un amico arrabbiato».

Sicuro? Nemmeno tuo fratello? Come ha preso «Everyman»?
«Gli mandai il manoscritto con un biglietto che diceva: molte persone penseranno che sei tu e… Senti: non lo so! Quando il libro è uscito lo avrà buttato nel gabinetto, o ha dato un pugno alla moglie o magari è salito sul tetto per buttarsi di sotto. Ma a me non ha detto niente».

Ti sei mai chiesto che effetto doveva fare essere il fratello di Philip Roth?
«Sì, ci ho pensato. Non lo so. Doveva essere piacevole, fonte di soddisfazione e anche orribile. Quando vinsi il Pulitzer, Sandy mi chiamò piangendo. Ma che altre volte si sia scocciato, irritato, imbarazzato, o si sia sentito insultato… Sì, credo sia vero anche questo».

Com’è la frase di Czeslaw Milosz sulla famiglia che mi hai citato una volta?
«Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita».

E quella di Flaubert che hai trovato sulla scrivania di William Styron?
«”Devi vivere una vita ordinata e regolare come un borghese, se vuoi essere scatenato e originale nel tuo lavoro”. C’è della verità, in questo. Alcuni sono stati capaci di esser scatenati e originali sia nella vita sia nel lavoro. Non io. Io ho bisogno di molta quiete, molto tempo e di una grande regolarità per scrivere».

Vita sociale?
«Pochissima. Vedo solo gli amici».

Periodi di depressione?
«Tra un libro e l’altro. Quando mi chiedo se sarò capace di scrivere ancora».

E la depressione vera?
«L’ho sperimentata dopo i cinquant’anni, di solito si presentava come effetto di un periodo prolungato di dolore cronico. Nel mio caso è il mal di schiena che mi ha accompagnato tutta la vita dopo un brutto incidente sotto le armi. Non so, quando soffri per sei, sette, otto mesi, devi essere psicologicamente più forte di quanto sia io, per non esserne annientato. Prima della mia seconda operazione alla schiena ho avuto 17 mesi ininterrotti di dolore. E se a questo si aggiungono problemi personali, allora è la fine. In quell’occasione ho pensato al suicidio. Ho dato il mio dolore a un personaggio di Everyman — una donna — che, in effetti, si uccide».

Sei mai stato crudele?
«Penso di sì. Ma penso anche di non esserlo stato quando avrei dovuto. Mi domando quale sia la natura della crudeltà. Se non sei un criminale, credo sia il tradimento personale. Di certo ci sono persone che mi hanno accusato di questo. Ma non è un tratto distintivo del mio carattere».

E se ti chiedessi dove hai fallito?
«Penso di avere commesso molti errori di valutazione. Ma come ha detto la mia amica Josie Herbst quando la conobbi a un party quarant’anni fa, “Se non fosse per i miei errori sarei ancora sotto un portico a Sioux City”».

Che sentimenti ti ispira la prossimità della morte?
«L’idea che morirò mi fa paura, tristezza, mi dà il desiderio di rivivere tutto daccapo. Ma non rabbia. Quando scrivo di morte e cataclismi come nei miei ultimi quattro libri, non provo rabbia. Cerco di rappresentare come il morire condiziona la vita di coloro che si avvicinano alla morte».

Una volta abbiamo avuto una conversazione piuttosto comica sulla tua ricerca del cimitero giusto. Te la ricordi?
«Sì».

Lo hai trovato?
«Sì, ma non te lo dico. Perché se si venisse a sapere dove sarò sepolto, il giorno dopo il funerale il cimitero sarebbe invaso dalle ragazzine».

Come stai organizzando la tua posterità?
«Non la sto organizzando. Tanto non posso farci niente. La sola cosa buona della posterità è che non dovrò più leggere le recensioni sui miei libri».

Vorresti farci credere che non stai mettendo le cose in ordine?
«Certo che le sto mettendo in ordine. Ma a parte dare le mie carte alla Biblioteca del Congresso, non c’è molto da fare. E poi a chi importa?».

A te, per esempio.
«No. Guarda, se c’è una cosa che è fuori dal nostro controllo, è la posterità. Per cui che vada al diavolo».

I tuoi ultimi anni sono stati molto produttivi. Cosa c’è nel tuo futuro?
«Un’idea piuttosto chiara ce l’ho, ma non so quando (ride). Ma non si mangia stasera? Ancora no?».

Prima dobbiamo trovare un finale…
«Io penso che ce l’abbiamo il finale. Un finale commovente su questo povero vecchio che morirà. Lasciamo che questo sia il finale, ok?».

Livia Manera 17/03/2013
FONTE: Corriere della sera/Il Club della Lettura

 

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