Intervista a Paul Auster

Paul Auster, silenzio parla il mio corpo

auster “Noi siamo i nostri corpi. Non riesco a vedere la mente separata dal resto, non credo a uno spirito esterno che ci sopravvive. E non credo neanche al progresso: migliora la tecnologia, ma i difetti degli uomini restano sempre gli stessi.” 

 

Un testamento. Intellettuale, ma pur sempre un testamento. Bilancio della propria esistenza, fatto attraverso il racconto della storia del suo corpo. Questo èWinter Journal, il nuovo libro di Paul Auster, atteso per agosto negli Usa e programmato per l’autunno (2012 ndr) in Italia.

Lei dice che era una mattina d’inverno, e nevicava, quando ha cominciato a scrivere questo diario. Perché ha sentito il bisogno di farlo?
«Non lo so. È una domanda a cui non sono riuscito a rispondere. Ho solo voluto questo libro e l’ho scritto».

In seconda persona: perché?
«Mi è parso il modo migliore per coinvolgere il lettore, e fargli capire che in realtà sto raccontando la storia di tutti noi. La prima persona sarebbe stata troppo intima ed egocentrica, la terza troppo distante. La seconda era giusta, perché questo è il libro di ogni corpo. In modi diversi, siamo passati tutti attraverso queste stesse esperienze e sensazioni».

Lei conclude il racconto dicendo che è entrato nell’inverno della sua vita: cosa le ha dato questa sensazione?
«È un semplice fatto matematico. Oggi nei paesi occidentali la lunghezza media dell’esistenza è circa ottant’anni, se sei fortunato. Dividendo questo numero per le quattro stagioni, il risultato è venti anni per ciascuna. Io ho compiuto 65 anni, e certamente non sono nella primavera della mia vita. Spero di passare un lungo inverno, ma questa è la mia stagione e non posso sapere quanto durerà».

Oltre trent’anni fa, dopo la morte di suo padre, lei pubblicò L’invenzione della solitudine. Ora che sua madre è morta, torna a scrivere una memoria: c’è una connessione?
«Lontana. Cominciai a scrivere L’invenzione poche settimane dopo la morte di mio padre, perché il mio rapporto con lui era stato complicato. Mia madre invece è morta da qualche anno, ma ci ho messo più tempo ad assorbire questo lutto. Avendo deciso di scrivere un libro sul mio corpo, ho pensato che dovevo parlare anche di lei, perché dentro di lei tutto è cominciato. Così come ho sentito la necessità di parlare delle 21 case in cui ho abitato, perché sono la corazza che mi ha protetto dagli elementi».

Ogni volta che arriva a un passaggio fondamentale della sua vita, il suo corpo va in frantumi: attacchi di panico, crisi gastriche. Sembra quasi che capisca i suoi sentimenti meglio della mente.
«È esattamente così. Credo che capiti anche ad altri: quando ci troviamo davanti a situazioni emotive, invece di manifestare le nostre sensazioni, lasciamo che sia il corpo a spiegarle. Quando perdo una persona vicina divento di pietra, ma il mio corpo si scioglie».

Almeno due volte si è trovato a un passo dalla morte: da bambino, quando un suo amico che le stava vicino fu ammazzato da un fulmine; e da adulto, quando ha fatto un incidente d’auto che quasi uccideva sua moglie. A cosa ha pensato in quei momenti?
«Alla fragilità della vita. C’è gente che sopravvive alle guerre, e poi muore inciampando in casa. Può finire in ogni istante, dobbiamo tenerlo sempre presente».

Nel libro racconta anche i suoi incontri con prostitute: perché?
«È la storia di un uomo: ho pensato che l’unico modo di scriverla era essere completamente onesto. È successo quando ero giovane e molto solo, penso sia capitato a tanti altri. Quando ne ho parlato in Spagna, molti giornalisti si sono scandalizzati; quando l’ho fatto in Olanda, non hanno mostrato particolare interesse. Deve essere la differenza tra la cultura cattolica e quella protestante, forse. Comunque io ho raggiunto un’età in cui non ci si vergogna più della realtà, e non mi piace l’ipocrisia di chi la nasconde».

Parla molto anche del suo rapporto col cibo.
«Dobbiamo mangiare per necessità, ma se ci riflettete bene la cucina è un enorme salto della nostra immaginazione. Pensare che da una spiga possa venire il pane è un grande atto creativo. Il cibo è così sofisticato, pieno di cultura, legato insieme alle nostre necessità di sopravvivenza quotidiana e alla nostra aspirazione alla gioia. Non potevo lasciarlo fuori».

Lei dice che non ha nostalgia per il passato, perché aveva gli stessi difetti del presente: non crede al progresso dell’umanità?
«No. Migliora la tecnologia, ma i nostri limiti restano gli stessi. Stupidità, pregiudizi, avidità cambiano forma durante le varie epoche, ma nella sostanza restano uguali. Altrimenti come si spiega che facciamo ancora le guerre, dopo la seconda guerra mondiale? Come si spiega il massacro di innocenti che vediamo ogni giorno in Siria? I genocidi dovevano finire, eppure è arrivato il Ruanda. Guardiamo all’ingiustizia economica e sociale, a come è stato ostacolato il primo presidente afro-americano, Obama, che proprio per questo va ancora sostenuto nonostante tutti i problemi. No, la natura umana è la stessa, e non cambia. Abbiamo nostalgia di quando eravamo giovani perché è stato il momento in cui abbiamo scoperto la vita, ma non era un tempo migliore. Non c’è mai un tempo migliore degli altri».

Scrivere del suo corpo, l’aspetto più materiale dell’uomo, l’ha spinta a riflettere sulla sua spiritualità?
«Certo. Io sono una persona molto spirituale, in continua ricerca. Sono convinto che facciamo parte di una cosa enormemente più grande di noi, che non riusciamo a capire. Però sono restio a chiamarla Dio. Non credo che esista un’intelligenza superiore che ha pensato tutto questo».

E cosa succederà alla fine del suo inverno?
«Noi siamo i nostri corpi, non credo a uno spirito separato dal resto. Quando arriva la morte è finita. Forse si sopravvive nel ricordo degli altri, ma non mi aspetto un’altra vita».

È possibile l’etica, senza una fede religiosa che ci obblighi ad abbracciarla?
«La chiave resta nel rispetto e nella tolleranza reciproca. Io non credo, ma ho il massimo rispetto di chi lo fa. Non accetto l’idea che si possa combattere per una religione. Non voglio imporre il mio incerto parere agli altri, e mi aspetto che gli altri facciano altrettanto con me. Questo siamo, questo dobbiamo imparare ad accettare. Possibilmente prima che arrivi l’inverno».

11/06/2012
PAOLO MASTROLILLI  inviato a New York

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