Intervista a Donna Tartt

“Signora Tartt, perché scrive un libro per decennio?”

donnaDonna Tartt è vestita da uomo come sempre, spicca la camicia a righe bianco e verdone con le iniziali ricamate ai polsini. Piccola, minuta, caschetto nero d’ordinanza, bellissimi occhi verdi vivaci. A cinquant’ anni è una delle scrittrici più quotate del mondo pur avendo pubblicato soltanto tre libri in ventidue anni. Non è sposata, non è fidanzata, non ha figli. Vive sei mesi a New York e sei mesi in una fattoria della Virginia. È a tutti gli effetti una reclusa della letteratura, ma non è una musona e neppure un grigio topo di biblioteca. Al contrario è luminosa e vivace, chiacchierona. Però è preda di quella che lei stessa definisce “un’ossessione” che la tiene segregata in casa per anni a lavorare indefessamente.

Signora Tartt, perché scrive un libro per decennio?
«È come chiedere a un uccello perché costruisce il proprio nido nel modo in cui lo costruisce. Ho un metodo di lavorare istintivo, l’unico che conosca. Ho cominciato con le poesie ma mi sono accorta presto che non volevo fare la poetessa. Quando ho cominciato a lavorare al primo romanzo mi sono subito trovata a casa. Sapevo esattamente cosa fare, ma non saprei dire il perché. Ci sono quelli che invece proprio non ce la fanno a rimanere sullo stesso libro per più di un anno o due. La stessa cosa mi succede con i viaggi. Non amo saltare da una città all’altra. Mi piace stare in un solo posto e arrivare a conoscerlo bene. Perfino come lettrice sono così. Leggo un libro più volte, vado avanti e indietro, ci metto molto tempo. Evidentemente questo è il modo in cui opera la mia mente».

Quindi per scrivere Il cardellino è stata a lungo a New York, Las Vegas e Amsterdam.
«Sì. Il libro in origine era ambientato solo a New York e Amsterdam, ma sentivo che c’era qualcosa che mancava e capitai a Las Vegas per caso. Non volevo andarci veramente: avevo dei pregiudizi. Ma invece ho imparato una lezione: a volte proprio le cose che non vuoi fare sono quelle che ti servono. È stato meraviglioso. All’Hotel Casinò Bellagio c’era una vera mostra sugli Impressionisti francesi. Dentro il casinò con la scenografia ben nota, c’è questo vero museo. Il confronto tra tutto quel mondo artificiale e le vere opere d’arte europee mi ha fatto scattare qualcosa dentro».

È vero che scrive tutti i suoi libri a mano? Il Cardellino sfiora le 900 pagine…
«Sì, tutto a mano, prendo appunti su appunti e riscrivo l’intero libro parecchie volte. Infatti quando lavoro alla fase finale del romanzo, cioè gli ultimi tre-quattro anni, sono sempre a casa: non riesco fisicamente a portarmi dietro tutta quella carta. E per tutto quel periodo sto isolata in una stanza, dove non faccio entrare nessuno, neanche la donna delle pulizie. È la stanza del manoscritto».

Quand’è che ha capito che il quadro giusto per il suo libro era proprio Il cardellino di Carel Fabritius?
«Doveva essere un quadro piccolo, che un bambino potesse nascondere facilmente e amare. “Il cardellino” era perfetto. Mi colpì la triste storia della vita del pittore. Carel Fabritius era molto famoso ai suoi tempi, era il migliore allievo di Rembrandt: la sua morte nell’esplosione di Delft fu una grandissima tragedia per la storia dell’arte. Purtroppo la maggior parte delle sue opere è andata distrutta, ma sappiamo che fu il primo a usare la luce nella pittura olandese: da quel momento in poi la luce è entrata per sempre nella storia della pittura. Era molto giovane quando è morto. La storia della sua vita è andata a incastrarsi perfettamente nel libro che stavo scrivendo».

Fabritius morì in un’esplosione, come la madre di Theo. Il cardellino sopravvive all’esplosione, come Theo. È un libro sulla sopravvivenza?
«Sulla sopravvivenza e anche sulla cattività e sulla liberazione. Parla di come ci si sente quando si è imprigionati dalla propria storia, dal proprio passato. E poi volevo scrivere un libro sull’ossessione per un’opera d’arte. È un argomento che non è stato sfruttato molto in letteratura. Si possono scrivere volumi di filosofia estetica sull’argomento, ma non c’è niente come un romanzo che possa parlare di un argomento come questo in modo semplice e divertente».

Che effetto le fa rileggere oggi i suoi due libri precedenti? Sono passati tanti anni.
«Li ho riletti a voce alta, parola per parola, per registrare gli audiolibri. È una cosa che ti pone di fronte alla tua scrittura senza via d’uscita. La sensazione più forte è stata quella di riandare con la mente alle situazioni che vivevo mentre scrivevo certe parti. Come rivedere vecchie foto di me stessa».

Lei ha frequentato l’università di Bennington con Bret Easton Ellis e Jonathan Lethem. Una fucina di talenti letterari.
«Jonathan all’epoca faceva il pittore, Bret studiava musica, io lettere classiche. Nessuno di noi studiava letteratura. Frequentavamo però dei seminari di scrittura creativa, da cui sono usciti molti scrittori: oltre a noi tre, anche Jill Eisenstadt e April Stevens. Avevamo un insegnante italiano, Arturo Vivante, figlio del filosofo e critico letterario Leone Vivante, amico di T. S. Eliot. Arturo aveva scritto molti racconti per il New Yorker negli anni ‘50 e aveva tradotto Leopardi in inglese. Era un insegnante favoloso, ha incoraggiato molto me e Bret, che stavamo scrivendo Dio di illusioni Meno di zero. Ci ha guidati un po’ ma fondamentalmente ci lasciava fare quello che volevamo. Poi, di colpo, Bret passò da studente qualsiasi a celebrità assoluta. È stato uno choc vedere come molti insegnanti di 45-50 anni fossero letteralmente invidiosi di lui e avessero preso a odiarlo. Questo ha influito su di lui e ne ha fatto un terribile cinico».

E mentre Ellis arrivava alla fama, lei era «solo» al terzo anno dedicato alla scrittura di Dio di illusioni.
«È stato il più bel periodo della mia vita. Non avevo soldi ma allo stesso tempo ero completamente libera di fare quello che volevo. Quando è uscito, il libro è stato subito un successo (3 milioni di copie vendute nel mondo, ndr), ma era comunque il frutto di dieci anni di lavoro. E quando hai ventotto anni dieci anni sono davvero tanti. Praticamente più di un terzo della mia vita l’avevo dedicata a scrivere quel libro».

Lei ha vissuto fino a 18 anni in una piccola cittadina del Mississippi. Com’era la vita culturale da quelle parti?
«La mia casa era piena di libri, grazie a mia madre, ma in generale era ed è un posto molto anti-intellettuale, nelle case dei miei amici non ho mai visto un romanzo. Eppure il Mississippi ha sfornato tanti grandi scrittori come William Faulkner, Tennessee Williams e Richard Ford».

Perché scrive sempre di bambini o adolescenti?
«Da adolescente avrei voluto leggere un sacco di libri ma la biblioteca della mia città non ne aveva molti. Oltretutto all’epoca andavano di moda scrittori come John Updike, che è un grande, ma che parlava di cose che non mi interessavano, come adulterio, divorzi, vita suburbana. Quindi rileggevo per la centesima volta i libri d’avventura di Robert Louis Stevenson e Mark Twain. E oggi come scrittrice cerco di trasmettere ai lettori quello che quegli scrittori trasmettevano a me allora. Si dice che i migliori libri americani siano quelli che stanno nelle camerette dei ragazzini. Vero. Noi americani non abbiamo grandi saghe come I Buddenbrook o Il Gattopardo. Noi abbiamo Moby Dick e Huckleberry Finn, perfino il protagonista del Grande Gatsby è un uomo infantile e ingenuo. È la mia tradizione. In Europa, invece, non potrete mai avere l’equivalente del Giovane Holden».

14 marzo 2014
Marco Drago per Vanity Fair

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