Intervista a Carlos Ruiz Zafón

Quando scrivo sono una belva in gabbia

zafNonostante i 25 milioni di copie vendute in tutto il mondo e uno stuolo di ammiratori che fanno il conto alla rovescia attendendo un nuovo libro, è rilassato, ironico, in jeans e polo azulgrana (curiosamente, i colori del Barça, ma non chiedo se è per quello onde evitare l’effetto Nick Hornby-Arsenal) e regala risposte fluviali, senza fretta.

Sono curiosa di conoscere il suo rapporto con la tecnologia, di sapere se è uno scrittore che considera i social media come strumento di comunicazione o preferisce un approccio più tradizionale.

Cosa ne pensa dei social media? Li usa? Pensa possano essere in qualche modo utili a uno scrittore?
Non credo. Sono solo un nuovo modo, sicuramente interessante, di promuovere cose, fare marketing. Essendo uno scrittore, poi, l’idea di dover comunicare restando dentro i 140 caratteri di twitter non mi piace per nulla. Credo che i social network siano una fonte di rumore, e il loro successo sia dovuto al fatto che sono percepiti come cool. Ma non è vero. E nascondono un pericolo: peggiorano la concentrazione, rendono la nostra attenzione sempre più labile.

Quindi non pensa che facebook e twitter possano essere un modo per entrare in contatto con i suoi lettori?
Non sono affatto tecnofobo, anzi, ma credo che la relazione con i lettori uno scrittore la debba costruire solo con il suo lavoro, con i suoi libri. Tutto il resto è marketing.

A proposito del suo lavoro: come e dove scrive? Segue una routine, aspetta la famosa ispirazione, scrive di notte…?
L’ispirazione non esiste, o meglio, si chiama motivazione. SE AVESSI ASPETTATO LA MUSA, SAREI ANCORA LÌ, DAVANTI ALLA PRIMA PAGINA BIANCA.Come molti scrittori sono bravissimo a rimandare il momento in cui inizio a scrivere. Farei qualunque cosa per non affrontarlo; ti mette di fronte ai tuoi limiti, alle tue insicurezze. Ma non inizio mai alla cieca; penso molto prima di scrivere, quando inizio so perfettamente dove voglio arrivare. Anzi, la fase della gestazione, quando immagino la storia, è spesso più lunga della stesura vera e propria. E quando inizio, scrivo per ore e ore, tutti i giorni, esattamente come qualunque altro lavoro.

Seduto alla scrivania, nel suo studio?
Seduto ci sto poco. Sembro una belva in gabbia, Scrivo, mi alzo, parlo da solo, guardo fuori dalla finestra, suono il piano per qualche minuto, mi risiedo e ricomincio. In qualche modo funziona.

Dove si trova il Cimitero dei libri dimenticati?
E’ ovunque e da nessuna parte. E’ nella mente di chi lo immagina. Ovviamente è una metafora, parla della conservazione dei ricordi, della memoria, della lingua. Per questo quando un imprenditore mi ha chiesto di poterlo costruire a Barcellona, ho detto di no. Temevo diventasse un parco divertimenti un po’ kistch; invece preferisco rimanga un’astrazione nella mente di chi legge.

6 Marzo 2012
Barbara Sgarzi per Vanity Fair

 

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